Telmo Pievani è un giovane filosofo italiano e brillante divulgatore scientifico, grande sostenitore dell’introduzione della teoria di Darwin fin dalla scuola materna.
Nel numero di MicroMega intitolato “Un’altra scuola è possibile” (6/2014), dedicato a come rendere più efficace l’insegnamento di determinate materie tra cui la scienza, sostiene che se portassimo Darwin in maniera adeguata ai bambini fin dall’asilo sarebbe più facile per loro, da grandi, arrendersi all’evidenza (ovviamente scientifica) di come la nostra evoluzione sia “priva di direzioni, di finalità, di progetti più o meno intelligenti”.
Dovremmo cioè smetterla di “raccontare ai bimbi miti e favolette” e, al contrario, introdurre i concetti di “variazione casuale, selezione naturale e sessuale, deriva genetica, migrazione, svolte contingenti, imperfezioni e ramificazioni” attraverso esperienze laboratoriali che richiedono soltanto un po’ di fantasia e di spirito investigativo (cioè a basso costo, considerando le scarse finanze della scuola italiana).
D’altra parte si sa (?): i bambini sono per loro natura esploratori in miniatura. E allora perché non orientarli fin da subito al metodo dell’esplorazione scientifica che, come sostiene colmo di fiducia Pievani, non è una costruzione sociale come, che so, il diritto o l’economia, ma è un assoluto universale, “oltre ogni ragionevole dubbio”?
Ora, non so perché a volte decido di infliggermi la lettura di MicroMega ma a questo pensavo durante la giornata inaugurale dell’anno scolastico della scuola Steiner-Waldorf, quando la maestra di prima classe, guardando negli occhi i suoi cuccioli d’uomo, ha raccontato una fiaba, creata da lei proprio per loro, per accoglierli nel passaggio dall’asilo alla scuola dove, per tutta la durata dell’anno, continuerà a portare le potenti immagini delle fiabe che si trasformeranno, negli anni a venire, in favole, racconti, narrazioni mitologiche (paleo-indiana, egizio-caldaica, giudaico-cristiana, nordica, greco-romana) e, finalmente, in Storia.
Nella pedagogia Waldorf, fin dall’asilo, il racconto di fiabe è uno degli elementi cardine della formazione dell’uomo. Alla base di ciò sta un’evidenza che a prima lettura può sembrare ostica ma che se avrete voglia di seguirmi per pochi minuti vi accorgerete non esserlo affatto.
Il principio basilare, che anche gli specialisti della ricezione di Darwin riconosceranno, è il seguente: a livello animico l’ontogenesi ricapitola la filogenesi. Detto in parole semplici: l’evoluzione animico-spirituale dell’uomo del presente (cioè la sua capacità di conquistare autonomia e libertà di pensiero, di sentimento e di azione) deve attraversare tutte le fasi evolutive delle epoche passate, in cui il modo di pensare, di sentire e di volere era radicalmente differente da quello odierno.
Non possiamo, di conseguenza, nutrire un bambino di 4-5 anni con concetti formulati nel XIX secolo, poiché il suo stato di coscienza è più simile a quelle di un uomo antico.
La cacciata dell’uomo dall’Eden è una delle grandi narrazioni di quanto accaduto sul piano spirituale a un certo punto dell’evoluzione umana: la progressiva conquista della conoscenza (il frutto proibito era quello dell’albero della conoscenza), culminata con la nascita del pensiero scientifico nel Rinascimento, dove l’uomo viene posto al centro del mondo (pensate all’Uomo vitruviano di Leonardo) e quando si assiste a un progressivo potenziamento della capacità di pensare e alla conseguente atrofizzazione della capacità di sentire.
Possiamo dire che un tempo gli uomini, quando ancora non possedevano concetti (il mondo delle idee nasce in Grecia insieme alla filo-sofìa, che altro non è che un’evoluzione – decadenza secondo alcuni – della sofìa), attingevano a immagini potenti attraverso cui coglievano le ragioni dell’essere, i loro compiti e comprendevano il loro destino.
In questo senso le fiabe (ultimo retaggio di quelle immagini raccolte dalla memoria orale dei diversi popoli e sistematizzate con grande lavoro filologico, ad esempio dai fratelli Grimm) non sono il frutto di una fantasia arbitraria, non sono la creazione intenzionale di un autore, ma la descrizione oggettiva della vicenda umana che si realizza tra cielo e terra.
Fiaba e fantasia non hanno nulla da spartire. Oggi, noi adulti del XXI secolo, non siamo più in grado di accedere a queste immagini su un piano di verità poiché il nostro è un pensare per concetti e, forse ancora più tragicamente, un pensare per calcoli, la forma più mortifera del concetto. Tuttalpiù possiamo accedervi su un piano estetico (come ad esempio accade nella morfologia delle fiabe che i formalisti russi hanno a lungo studiato).
I bambini, invece, vivono ancora in un mondo sognante, nella dimensione del sacro dove non esiste logica, dove i princìpi di identità e non contraddizione perdono di senso, dove non servono pensiero e concetti, ma cuore e sentimento.
Nel mito incontriamo soprattutto le storie degli esseri spirituali superiori, esseri dotati di spirito e anima ma non di corpo, impegnati nelle grandi vicende fondative del mondo.
Nella fiaba i protagonisti sono prevalentemente gli uomini insieme agli esseri elementari della natura (anche se non di rado intervengono esseri superiori a indirizzare gli eventi), dotati di corpo e anima ma non di spirito: silfidi (aria), elfi, gnomi e giganti (terra), ondine (acqua), salamandre (fuoco). Tra cielo e terra si trova l’uomo, composto di corpo, anima e spirito, costantemente oscillante tra ambizioni celesti e desideri terrestri.
La fiaba, scrive Antonella Zanti, studiosa di antroposofia e cultrice di teatro di figura, “non ci parla di contesti specifici, di casi particolari, ma quello che racconta riguarda ognuno di noi, si appella a ciò che è universalmente umano, alle prove implicite nell’appartenenza alla terra e alla condizione di essere incarnati in una fisicità”.
“Ci parla dell’immenso dolore che ogni uomo sperimenta alla nascita, quando lascia la dimensione dello spirito per inabissarsi nella materia terrestre. Ci descrive questo dolore parlandoci della condizione in cui ci siamo trovati la prima volta che abbiamo fatto questa esperienza, quando siamo stati cacciati dal Paradiso, ma anche della condizione che ci si ripresenta ogni volta che rinasciamo, ogni mattina quando ci risvegliamo, ogni volta che la vita ci presenta una prova, un ostacolo o ci chiede di cambiare”.
“Armonizzare spirito e materia, ereditarietà e principio individuale, transitorio ed eterno è il destino di tutti e tutti gli uomini sono chiamati a misurarsi con questo. Nella fiaba ci viene mostrato come in un teatro la nostra condizione umana e ognuno dei personaggi che vi sono rappresentati vive in noi, nella nostra anima. Noi siamo il re, il principe e la povera fanciulla, ma siamo anche la strega, la matrigna o lo gnomo”.
“La nostra interiorità e le potenzialità, di bene e di male, che vivono in noi si squadernano sulla scena divenendo personaggi che svolgono una parte, le forze dell’anima si rivestono di immagini. Le immagini hanno la forza di parlare a una dimensione dell’essere intima e profonda, al nostro sentire, si fissano nell’interiorità. Hanno la capacità di descrivere un insieme, qualcosa che è in divenire, che può continuare a crescere con noi”.
“Nella definizione i pensieri si chiudono, si irrigidiscono, acquisiscono una forma fissa, nell’immagine invece i contorni sfumano, cambiano, si trasformano. Il rimando interiore di una definizione è un’esperienza di morte, il rimando di un immagine vera è una rivitalizzazione dell’essere. I bambini, quando ascoltano fiabe, cambiano espressione, colorito, osservandoli si può cogliere come ricevano un sano nutrimento per l’anima”.
Il concetto è tale solo se chiaro e distinto, univoco, non ambiguo, rigido, morto. L’immagine è instabile, ambigua, i contorni sono sfumati, come nella vita i colori si fondono al confine della forma (il tratto sottile del disegno è la modalità con cui l’arte trapassa dall’immagine al concetto. Per questo motivo nella scuola Waldorf non si usano pennarelli o penne a sfera!). L’immagine è metamorfosi e vita.
Le illustrazioni sono di Marco Maurizio Rossi
Nelle epoche passate l’uomo, per comprendere il mondo, attingeva alle immagini senza concetti. Oggi siamo invece nell’epoca dei concetti senza immagini, ma non per questo si tratta di invertire la rotta e disconoscere quanto raggiunto con l’evoluzione del pensiero.
Si tratta piuttosto di evitare che il pensiero prosegua il suo percorso involvendo in materialismo, non consentendo più all’uomo di riconoscere la dimensione spirituale da cui partì il suo cammino di libertà e che è fondamentale recuperare per non morire di aridità. La sfida che i tempi presenti ci pongono innanzi è la capacità di sviluppare un pensiero vivente che sappia oscillare tra concetto e immagine riconoscendo ad entrambi verità, bellezza e bontà.
Per innescare questo processo la figura del maestro (o del genitore che raccontando fiabe è naturaliter terapeuta e pedagogo) è fondamentale. Per capirne a fondo il ruolo porto l’esempio del rito.
Nell’antichità, quando le immagini potevano essere direttamente percepite dall’uomo senza bisogno di concetti, il ruolo dell’officiante poteva essere secondario. La parola bastava a se stessa per evocare l’immagine e produrre il suo effetto (gli scolastici usavano la formula: ex opere operato); oggi, perduta questa capacità percettiva, perché sortisca effetto la parola ha bisogno di un officiante adeguatamente preparato (ex opere operantis).
Narrare una fiaba è l’incontro di due interiorità: quella del bambino e quella del maestro, che agisce, come per magia bianca, trasferendo con la parole le forze in essa contenute. Forze che portano beneficio all’anima (oltre che al corpo fisico) del bambino, che sarà così nutrita di immagini vive e mobili, generatrici, a tempo debito, di concetti vivi.
È fondamentale dunque che il maestro porti le immagini delle fiabe con un atteggiamento interiore da cui traspaia verità e onestà. Il maestro non deve semplicemente pronunciare la lettera del racconto, deve essere intimamente convinto che la fiaba sia tutta vera.
Solo così potrà trasmettere le forze animiche contenute nella fiaba. Se non ne fosse convinto toglierebbe al bambino quelle forze, esponendolo anzitempo all’aridità del concetto e rendendo la vitalità dei suoi pensieri da adulto molto più rigidi, se non esclusivamente orientati alla materia.
Questa è la dinamica che il maestro attiva con i suoi allievi nel corso degli anni di scuola: la capacità di ricongiungere pensieri e immagini che hanno nostalgia reciproca, in un tempo in cui tutto è prevalentemente concetto e calcolo.
Non si tratta dunque di rifiutare Darwin a favore del disegno intelligente, del creazionismo o di un panteismo retrò, piuttosto di favorire lo sviluppo dello spirito libero nella sua ricerca. La morfologia di Goethe e l’evoluzionismo di Darwin possono convivere in una visione dialettica e dinamica, cercando di riscoprire la loro natura di immagini vive e mobili, non quella di concetti immobili e compiuti “oltre ogni ragionevole dubbio”.
Siamo contenti di come siamo, del mondo e della società che due secoli di materialismo ci hanno consegnato? Vogliamo crescere uomini già vecchi, prodotti da teorie scientifiche, politiche ed economiche formulate due secoli fa? Allora portiamo ai bambini i concetti del metodo scientifico e la rigidità del pensiero calcolante in ogni attività educativa, fin dall’asilo.
Vogliamo invece crescere uomini nuovi, portatori di pensieri nuovi? Allora, con sincero atteggiamento interiore, in una giusta atmosfera di cura e accoglienza, raccontiamo ai bambini le fiabe!